Dopo mesi di disciplinato anonimato, Giuseppe Conte ha vissuto infine il suo giorno da protagonista.

 

Tutti hanno ascoltato il discorso di dimissioni e secondo i sondaggi, la sua popolarità ha avuto persino una piccola impennata.

 

Un interessante articolo di Gianfranco Moretton, pubblicato sull’omonimo blog, analizza invece il commiato dell’ormai ex Presidente del Consiglio vedendolo come la recita di un’opera di pura arroganza, divisa in tre atti.

 

Il primo atto, secondo Moretton, è la parte in cui Conte rimprovera Salvini, usando il tono che un professorino riserverebbe ad un alunno incorreggibile.

 

Con il secondo atto emerge in modo più chiaro l’arroganza, infatti Conte parla di se stesso in terza persona, usando tra l’altro il nome istituzionale del ruolo che (sulla carta) ricopriva, rimarcando quanto Salvini avesse mancato di rispetto alla figura del Presidente del Consiglio.

 

L’arroganza raggiunge poi l’apice durante il terzo atto, in cui Conte proietta se stesso nel futuro, presentando il programma che seguirà il suo nuovo governo, ormai convinto evidentemente di essere lo statista di cui il Paese ha improvvisamente scoperto di avere bisogno.

 

In conclusione Moretton richiama argutamente un fatto storico, trovando un parallelismo inqueitante:

  Forse il paragone è irriverente (nei confronti dei Savoia) ma è stato inevitabile pensare, guardando quel trono dal quale Conte ha poi pronunciato il suo roboante discorso sulle Istituzioni, alla fuga del Re e della sua corte da Roma al precipitare della guerra. Ci viene in mente per definire la statura politica di questo premier una sola delle tante citazioni fatte nei discorsi e ci dispiace di citarne solo una violando la par condicio: Salvini ha ricordato il pensiero pronunciato da Don Abbondio raggiunto dai bravi: “il coraggio , se uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto.

 

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