L’Ilva rappresenta il perfetto esempio di come al peggio non ci sia fine.

 

La scorsa settimana Luigi Di Maio  ha chiuso la riunione sul destino dell’Ilva  proclamando che il Governo “non ha fretta di assegnare l’Ilva al primo compratore che passa”. La fretta dovrebbe esserci eccome, dato che il ritardo è già intollerabile.

 

L’acciaieria lavorava in utile fino al sequestro di parte dello stabilimento di Taranto disposto dalla magistratura nel 2012, mentre oggi perde circa 30 milioni di euro al mese. La gestione commissariale e i continui interventi normativi anche ad hoc hanno distrutto i conti dell’azienda, costringendo persino a ritardare gli investimenti ambientali da cui era nata l’esigenza del sequestro.

 

Dal punto di vista di un investitore estero, l’Ilva rappresenta la perfetta ragione per spaventarsi e stare lontani dal nostro Paese.

 

Il Governo precedente aveva bandito una gara per l’acquisto di Ilva che si era conclusa con l’aggiudicazione ad ArcelorMittal. L’offerta del gruppo indiano è parsa la più conveniente tenuto conto non solo per ragioni economiche ed occupazionali, ma anche perché prevedeva investimenti ecologici per mettere in sicurezza le lavorazioni.

 

Tutto questo a Di Maio non basta, dovrebbe concludere la vendita alla società che ha vinto la gara, e dare seguito al piano industriale che è stato concordato e autorizzato a livello locale, nazionale ed europeo, invece il Ministro preferisce sfruttare la ribalta per ricominciare a sentire tutti e studiare tutto, senza peraltro che sia chiaro se si tratti di mera tattica negoziale o se realmente egli voglia assumersi l’onere di far chiudere il maggiore polo industriale di tutto il Sud Italia. Appare incomprensibile la decisione di riaprire le danze al cospetto di una molteplicità di realtà associative prive di qualunque rappresentanza (tra le quali però non sono state coinvolte né la locale Confindustria né Federacciai, l’associazione di categoria).

 

In relazione a questa drammatica vicenda, le parole dell’Istituto Bruno Leoni sono durissime:

L’impressione è che si voglia soltanto dare spazio a una processione di questuanti, ciascuno dei quali latore del suo più o meno legittimo interesse, in modo da consentire al Governo di distribuire favori o ramanzine, con la benedizione della parte più populista del sindacato. Non se lo merita l’Italia, non se lo merita la Puglia e soprattutto non se lo meritano i lavoratori dell’Ilva e delle aziende dell’indotto. Ilva rappresenta una profonda ferita nella storia industriale italiana, nella tutela dei diritti di proprietà e nella certezza del diritto. Questa ferita va sanata, non riaperta