Il confronto sull’eventuale uscita dall’Euro non può essere trattato con partigianeria o emotività, come sempre più spesso avviene.

Sulle pagine del Sole 24Ore il professor Zingales ha invitato ad aprire un dibattito costruttivo sull’importantissimo tema, reso attuale dal fatto che il “NO” all’Euro è uno dei punti programmatici di alcuni dei movimenti politici più in ascesa.

Riportiamo qui i passaggi salienti dell’opinione in merito dell’economista Stefano Micossi, apparsa sul Sole24 Ore dello scorso 27 aprile.

Micossi cita anzitutto la pubblica dichiarazione di 25 premi Nobel apparsa su Le Monde poco prima delle elezioni presidenziali francesi i quali sottolineano che: «c’è una grande differenza tra scegliere di non aderire all’euro fin dal principio, e uscirne dopo averlo adottato».

Micossi quindi cita Krugman il quale sostiene che uscire per chi sta dentro produrrebbe conseguenze finanziarie devastanti (come confermato anche dal greco Varoufakis).

Ma i premi  Nobel, nella loro dichiarazione incentrata appunto sul caso francese, denunciano soprattutto che se la Francia uscisse dall’euro, vi sarebbe un reale rischio di dissoluzione non solo della moneta comune, ma dell’Unione europea, aprendo la strada allo smantellamento del mercato interno e all’emergere in sua vece di mercati nazionali separati da barriere protezionistiche. Su questo, Micossi propone tre interessanti valutazioni, che qui riportiamo:

 

La prima è che agli occhi di molti accademici americani – si veda per tutti il volume di Joseph E. Stiglitz The Euro: how a Common Currency Threatens the Future of Europe (Norton 2016) – il mercato unico, la moneta comune e le istituzioni create per sorreggere la realizzazione sono entità separate e indipendenti. Così, ai loro occhi il regime di cambio non influenza il mercato, dato che nulla impedisce agli operatori di coprirsi dai rischi di cambio a costi trascurabili. Analogamente, la decisione di cooperare in materia di controllo dei confini e di sicurezza comune appare ai loro occhi indipendente dalla scelta di condividere la moneta. Ma la storia contraddice questa visione, come ha magistralmente ricordato Sergio Fabbrini nei giorni scorsi su questo giornale. La ricerca costante della stabilizzazione del cambio, dopo la rottura dei cambi fissi di Bretton Woods, è stata sempre legata alla costruzione del mercato interno; e l’unione monetaria è stata la figlia della crisi del sistema dei cambi fissi, ma aggiustabili, dello Sme, dopo la scelta di liberalizzare i movimenti di capitali alla fine degli anni 80. Nel momento in cui si incorpora nei Trattati la moneta comune, a Maastricht, si istituisce anche l’Unione politica, articolata sui tre pilastri del mercato, della sicurezza interna e della politica comune estera e di difesa. Nel frattempo, le esigenze di preservare le quattro libertà di movimento all’interno del mercato unico (beni, servizi, capitali e persone), presenti fin dall’origine nei Trattati, conducono allo sviluppo di un sistema giuridico centrato sulla giurisprudenza della Corte europea di giustizia

Queste componenti sono tra loro intimamente legate; se ne cade una, cadono anche le altre come birilli.

Ad esempio, i negoziatori italiani che cercavano di riportare la lira nello Sme a metà degli anni 90 furono avvertiti che una nuova svalutazione della moneta italiana, dopo quella del 1992-93, avrebbe condotto all’instaurazione di barriere commerciali sulle esportazioni dei prodotti italiani verso il mercato interno. Dovettero anche inghiottire una certa rivalutazione del cambio come biglietto di ri-ammissione (circa un terzo della svalutazione originaria). Così come la moneta faceva parte dello scambio politico fondativo dell’Unione tra la Francia e la Germania nel momento dell’unificazione tedesca; e l’Unione politica era una precisa richiesta della Germania che rinunciava al marco (su questo i francesi ancora stentano a trovare una risposta).

La seconda osservazione riguarda le ragioni profonde della “preferenza rivelata” per i cambi fissi dei Paesi dell’Europa continentale, costantemente ribadita attraverso le più grandi tempeste finanziarie dagli anni 70 in poi. Questi Paesi sono “piccoli” nel contesto internazionale, fortemente tra loro integrati e collettivamente molto meno integrati con il resto del mondo, e hanno la caratteristica comune di ordinamenti economici e sociali piuttosto rigidi nei quali il cambiamento non viene semplicemente introdotto dalle forze di mercato, ma viene mediato politicamente tra le forze sociali con l’intervento attivo dei governi. È questo il modello dell’economia sociale di mercato, i cui equilibri sono incompatibili con regimi di cambio flessibile tra le monete dell’area. Non contrasta con questa analisi il fatto che alcuni Paesi del Nord Europa non abbiamo aderito all’euro: a tutti gli effetti, essi sono rimasti ancorati al cambio dell’euro e alle regole del mercato interno. Diverso era il caso del Regno Unito, che ha potuto restare nell’Unione come un free rider del mercato interno, con forti benefici per la sua piazza finanziaria, ma alla fine se n’è andato lo stesso, perché non riusciva ad accettarne le regole di libera circolazione garantite dalla Corte di Giustizia. Non è un caso, dunque, se nel momento delle scelte esistenziali, gli elettori dell’Europa continentale scartano le avventure e scelgono di continuare con l’euro e con l’Unione.

Infine, l’ultima osservazione: le politiche economiche necessarie ad assicurare la crescita sono esattamente le stesse sia con cambio fisso che con cambio flessibile. Senza disciplina di bilancio e disciplina nei costi industriali, senza progresso costante della produttività, non ci può essere crescita sostenuta. Trovo profondamente disonesto promettere all’opinione pubblica la libertà dai vincoli europei come bandiera elettorale, quando mi pare ovvio che una svalutazione del cambio (dopo l’uscita dall’euro) richiederebbe sacrifici di bilancio e sacrifici nel tenore di vita della popolazione molto più severi di quelli che il governo italiano fatica a fare accettare con i cambi fissi.