Movimenti politici forti e attualmente in trend positivo come la Lega e il Movimento 5 Stelle sono apertamente anti euro, mentre altri partiti, quali Forza Italia o Fratelli d’Italia sono fortemente dubbiosi sull’utilità della moneta unica europea, pertanto l’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro non è irrealistica.
L’argomento tuttavia viene trattato da giornalisti e politici con una certa leggerezza oppure con prese di posizioni dettate più dall’emotività piuttosto che in modo razionale.
Invece l’argomento è così delicato e concreto che necessita di essere affrontato in modo logico e serio.
Il professor Zingales sulle pagine del Sole24 Ore ha recentemente posto le basi per un dibattito costruttivo sul fondamentale argomento, ponendo alcune regole, che qui citiamo (ricavate dall’articolo del 16 aprile 2017) e soprattutto dividendo il tema in tre argomenti di confronto:
“La prima è la correttezza formale. Non si accettano attacchi personali o insulti. La seconda è la correttezza sostanziale: ogni affermazione va giustificata con una referenza accademica (in nota) o con la precisazione che si tratta di un’opinione personale. La terza è dividere il dibattito per argomenti.
Nel decidere se la permanenza nell’euro è preferibile al ritorno a una moneta nazionale bisogna considerare tre aspetti.
1: se nel lungo periodo è preferibile per un Paese come l’Italia avere una moneta comune con il resto del (Nord) Europa o no.
2: quanto elevati (e duraturi) possano essere i vantaggi e gli svantaggi della svalutazione della nostra moneta nazionale che seguirebbe naturalmente dopo un’uscita dell’Italia dall’euro.
3: quanto elevati sarebbero i costi (economici e politici) di una nostra uscita unilaterale dall’euro.”
All’appello lanciato da Zingales hanno risposto immediatamente Franco De Benedetti e Ignazio Angeloni, i quali in realtà, prima di entrare nel dettaglio degli argomenti, hanno sostanzialmente negato che un dibattito serio non ci sia già stato, rimarcando piuttosto al difficoltà a giungere ad una conclusione condivisa.
Riportiamo quanto affermato da Franco Debenedetti (lettera del 18 aprile 2017) in risposta Zingales:
“Dire, come come ha fatto Luigi Zingales nella sua rubrica «Alla luce del Sole» di domenica 16 aprile, che è mancato finora un “dibattito serio” sull’Italia e l’euro, mi pare un po’ esagerato. Anzi questo giornale, secondo la sua posizione e tradizione, vi ha seriamente contribuito: solo nelle ultime settimane ricordo Bini Smaghi, Codogno, Fabbrini, Galli, e sono certo di far torto a molti. Forse il dibattito non è stato organicamente articolato e pubblicamente esposto con l’evidenza adeguata all’ampiezza che hanno conquistato le posizioni euroscettiche. Ben venga quindi l’approfondimento che egli propone.
Tuttavia, prima che incominci il dibattito tra economisti, da non economista credo necessarie alcune riflessioni sul
dibattito stesso: metodologiche e politiche.Prima: sull’ordine con cui Zingales ha scelto di articolare il dibattito. Cioè prima se la moneta unica conviene, poi quanto converrebbe non averla, infine quanto costerebbe abbandonarla. Sostengo che l’ordine debba essere invertito: infatti se l’uscita apparisse troppo costosa e troppo pericolosa, che senso avrebbe andare avanti? Ci sono buone ragioni per credere che così sia. Sentiamo cosa ne dice uno che queste cose le ha vissute, Yanis Varoufakis, sul blog di Rifondazione Comunista.
«Io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali.[Ma]c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne [perché questo]non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati. […] Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svaluarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo.Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, Paesi come la Germania, […] vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. […] Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in Paesi come la Germania) e un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei Paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali). […] Tutte le economie a est del Reno e a nord delle Alpi finirebbero in depressione e il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica […]. Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta». Fine della citazione.
Non si discute impunemente di vantaggi e svantaggi di un’uscita. Tutto ciò che rende credibile la ridenominazione, cioè che controlli sul capitale rendano impossibile portare gli “euro italiani” fuori dall’Italia oppure che questi siano forzosamente convertiti in una nuova lira, induce gli investitori a ritirare i propri depositi dalle banche italiane per depositarli in banche tedesche oppure per comperare Bund. Suscitare il timore del rischio rende il rischio autoavverantesi,
Seconda osservazione: le persone che dovranno contribuire al dibattito. Sull’euro c’è una “battle of ideas” (per riprendere titolo, e qualche frase, del recente libro di Markus Brunnermeier): battaglia tra l’idea francese, di uno stato centrale forte che interviene ex-post, e l’idea tedesca di un sistema di regole ex ante che evitino il moral hazard. Ma entrambe sono figlie dell’idea di stato nazione, quella che fatto grande l’Europa e con lei tutto l’Occidente. Diversa è la “battaglia” tra visioni continentale e anglosassone. C’è un bias ideologico: gli americani non hanno mai accettato che l’Europa potesse unirsi costituendo un’area economica più rilevante degli Usa. I vari Krugman, Sachs, Stiglitz, Feldstein, divergenti tra loro nelle analisi, sono uniti nelle critiche vivaci, a volte feroci, di ciò che l’Europa fa, o non fa. L’interesse geopolitico degli Usa a che l’Europa aiuti a stabilizzare la domanda aggregata a livello mondiale, e una diversa filosofia economica, aumentano la loro tendenza a far la lezione all’Europa.Basti ricordare due momenti. Il 2012, anno di elezioni presidenziali, quando il timore che la crisi del debito europeo potesse dilagare e pregiudicare le sorti di Obama e portare a una vittoria dei repubblicani, i ripetuti interventi di Tim Geithner perché l’Europa «facesse qualcosa». E il 2015 quando gli Usa temettero che il contagio politico da Grecia a portogallo Spagna e Italia, rafforzasse il potere di Putin nel Sudest europeo: «un errore geopolitico», secondo John Lew.
Terza osservazione: le aspettative dell’iniziativa di Zingales. Tutti crediamo nel «valore di un dibattito intelligente e costruttivo»; paghiamo pure il rituale (e un po’ ipocrita) tributo allo scopo non di «convincere i lettori in una direzione o nell’altra, ma di informarli». Purché non si pensi che la soluzione al problema dell’Italia nell’euro sia un teorema da dimostrare o un modello da validare.
La questione è interamente politica, ed è nella politica che deve trovare la sua soluzione. “
Un’interessante lettera è stata scritta anche da Ignazio Angeloni, membro del Cosiglio di vigilanza della Bce, titolata “L’euro non è certo l’origine dei nostri mali”, che riportiamo qui:
l’appello di Luigi Zingales ad avviare un dibattito “serio e costruttivo” sull’euro (Il Sole 24 Ore del 16 aprile) mi ha sorpreso. Premetto che conosco Zingales da diversi anni e che in passato ho apprezzato alcuni suoi contributi accademici nel campo della finanza; so anche che negli ultimi tempi egli ha espresso opinioni critiche sull’euro e sull’Unione europea. Non mi meravigliano quindi né la chiamata rivolta alla comunità accademica né l’implicito invito a sfatare, usando lo strumento dell’analisi, presunti luoghi comunisull’irreversibilità della moneta unica e sull’adesione dell’Italia.
Quello che sorprende è che l’appello sia lanciato senza avvertire l’ignaro lettore che l’argomento è stato
oggetto di interminabili discussioni per decenni, senza che si sia mai raggiunto alcun consenso sul piano
dell’analisi economica.
Cominciò all’inizio degli anni cinquanta Milton Friedman (Università di Chicago), al tempo in cui le parità monetarie erano fisse in tutto il mondo, con uno studio in cui sosteneva i vantaggi dei cambi flessibili. Pochi anni dopo arrivò Robert Mundell, anche lui fresco di studi a Chicago, con un altro studio in cui mostrava che a certe condizioni era preferibile un sistema di cambi fissi. Mundell è stato poi chiamato, forse a sproposito, il “padre dell’euro”. Da allora il dibattito è rimasto sostanzialmente fermo su quegli argomenti, né l’enormemassa di dati portati a supporto delle due tesi ha mai potuto dirimere la controversia.
La politica si è espressa in modo più netto. Dal dopoguerra a oggi (o meglio dal 1971, data che segna la fine del sistema mondiale dei cambi fissi) i Paesi europei hanno costantemente, anche se con difficoltà, cercato di stabilizzare i rapporti di cambio, nella convinzione che le oscillazioni delle parità monetarie fossero di ostacolo al mercato unico e al progetto più generale di integrazione e cooperazione nel continente. La creazione dell’euro, il compimento di quell’aspirazione, fu non solo approvata formalmente da tutti i Paesi, ma sostenuta a grande maggioranza dall’opinione pubblica. Quando venne introdotto, l’euro godeva del sostegno dell’84% degli italiani (sondaggio Eurobarometro); un dato fra i più alti dell’eurozona. Oggi la percentuale di approvazione in Italia è più bassa che negli altri Paesi (dove si sta riprendendo), ma rimane comunque superiore al 50%.
Pur rimanendo scettico sulla possibilità di risolvere la questione seguendo le regole proposte da Zingales,
condivido la passione per il civile confronto delle idee. Penso anche che in un momento di divisione e disorientamento del Paese sia dovere di coloro che a diverso titolo fanno di questi temi una professione ripensare le proprie convinzioni ed esporle in modo chiaro, cosicché esse possano essere comprese egiudicate. Per questa ragione ho spiegato le mie idee sull’euro e sulla permanenza dell’Italia in esso in uno scritto che viene pubblicato oggi in un volume di vari autori su temi analoghi. Per ragioni di spazio, mi limito qui a riassumere qualche considerazione.
L’Italia ha vissuto la sua “età dell’oro” (così l’ha chiamata Gianni Toniolo), con tassi di crescita annuali oltre il 5%, nel periodo postbellico in cui i cambi erano fissi. Dagli anni settanta, la lira si è progressivamente e drammaticamente svalutata ed è subentrato gradualmente il cosiddetto “declino”. Significa questo che fissando il cambio si ottengono automaticamente alti tassi di crescita? Evidentemente no. Giocavano allora, come oggi, altri fattori. Questo semplice fatto dovrebbe però far riflettere tutti coloro che contano sulla mera svalutazione della moneta per stimolare la crescita nel cosiddetto “lungo periodo”. Alcuni critici dell’euro portano poi ad esempio gli Stati Uniti, che sarebbero dotati, a differenza dell’eurozona, di istituzioni che consentono all’unione monetaria di funzionare – meccanismi di redistribuzione, un bilancio federale, una completa unione bancaria, e quant’altro. Quei critici dimenticano che gli Stati Uniti hanno introdotto quegli strumenti oltre un secolo dopo avere adottato il dollaro, e dopo una guerra civile, molte crisi finanziarie, e la Grande Depressione. Un esperto del processo di integrazione americana come Randall Henning ha scritto, ironicamente, che a confronto quello europeo è “molto educato”.
Negli ultimi anni, dopo che Mario Draghi ha annunciato che avrebbe usato tutti gli strumenti disponibili per difendere l’euro e dopo che la banca centrale ha dispiegato le sue manovre espansive, la crescita economica nell’eurozona (Italia esclusa) si è assestata intorno al 2%; in Italia, si colloca intorno all’1%. La Spagna, Paese che ha subito una grave crisi e ha dovuto ricorrere all’aiuto internazionale, cresce oggi a più del 3%.
L’appartenenza all’euro comporta insieme ai vantaggi anche regole e vincoli, ma questi semplici esempi dovrebbero far riflettere quelli che vedono la moneta unica come una gabbia in cui prospera solo la Germania, e che ritengono che la stagnazione italiana dipenda dall’euro e non da problemi intrinsechi del
nostro Paese. Su questi ultimi bisogna concentrarsi, senza cercare diversivi.
Auguro a Zingales e al Sole 24 Ore un proficuo dibattito su questi importanti temi. Non auguro invece a nessun lettore di questo giornale di ritrovarsi cittadino di un Paese che tentasse l’improvvida avventura di
staccarsi dall’euro e dall’Unione europea. Nessuno di questi due è perfetto: dobbiamo lavorare insieme dall’interno per migliorarli.”