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Draghi: “Stampare moneta per finanziare il debito non funziona”

Mario Draghi, ricevendo un PhD honoris causa alla Normale di Pisa, ha parlato dell’Euro e della Lira, ricordando ai nostalgici della moneta nazionale i problemi che questa aveva creato e sottolineando soprattutto che la rimpianta “età dell’oro” degli anni 80 fu di fatto ottenuta a carico delle generazioni future che ora ne stanno pagando le conseguenze. Ecco la sintesi del suo discorso.

 

Dal varo del sistema monetario europeo la lira fu svalutata sette volte, eppure la crescita della produttività fu inferiore a quella dell’euro a 12, la crescita del prodotto pressappoco la stessa, il tasso di occupazione ristagnò. Allo stesso tempo  l’inflazione toccò cumulativamente il 223% contro il 126% dell’area euro a 12.

Alcuni paesi persero sia i benefici della flessibilità dei cambi che la sovranità della loro politica monetaria. I costi sociali furono altissimi, innescando un processo che si concluse con le crisi valutarie del ’92-’93

La possibilità di stampare moneta per finanziare il deficit non è stata usata neanche dai Paesi che fanno parte del mercato unico  ma non sono parte dell’euro.  Prima dell’euro le decisioni rilevanti di politica monetaria erano prese in Germania mentre oggi sono partecipate da tutti.

La storia italiana dimostra che il finanziamento monetario del debito pubblico non ha prodotto benefici nel lungo termine. Nei periodi in cui fu estensivamente praticato, come negli anni 70, il Paese dovette ricorrere ripetutamente alla svalutazione per mantenere un ritmo di crescita simile a quello degli altri partner europei; l’inflazione divenne insostenibile e il caro vita colpì i più vulnerabili.

La crescita degli anni 80 fu presa a prestito dal futuro, cioè grazie al debito lasciato sulle spalle delle future generazioni. La bassa crescita italiana è un fenomeno che ha inizio molti molti anni prima della nascita dell’euro, si tratta chiaramente di quello che noi chiamiamo un problema di offerta.

In vari Paesi i benefici che ci si attendevano dall’Unione monetaria non si sono ancora realizzati con la cultura della stabilità che avrebbe portato l’Unione economica e monetaria. Ma non era pensabile che a quei benefici si arrivasse solo dall’unione monetaria, occorreva e occorre fare di più per conseguire più crescita e occupazione.

Per porre i Paesi dell’euro al riparo dalle crisi occorre procedere quanto meno sul completamento dell’unione bancaria o su quello del bilancio comune con funzioni anti-crisi.  ma l’inazione su entrambi i fronti è inaccettabile, accentua la fragilità del’unione monetaria proprio nei momenti di crisi e dunque la divergenza aumenta.

Nel resto del mondo il fascino di ricette e regimi illiberali si diffonde, a piccoli passi si rientra nella storia. E’ per questo che il nostro progetto europeo è oggi ancora più importante. E’ solo continuandone il progresso, liberandosi le energie individuali ma anche privilegiando l’ equità sociale che lo salveremo attraverso le nostre democrazie ma nell’unità di intenti.

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Italia

Euro Si, Euro No: la storia non ha la retromarcia

Continua il dibattito che coglie al cuore una delle questioni più importanti dell’attuale situazione dell’Unione Europea, ovvero se l’uscita dall’Euro sia una soluzione possibile ed auspicabile, come sempre più voci politiche sembrano sostenere.

 

Sul tema, sulle pagine del Sole24ore si è espresso l’economista americano Barry Eichengreen, che analizza la storia monetaria dell’Euro, sottolineandone gli errori, e propone un’efficacie metafora per descrivere la situazione: la macchina europea non ha la retromarcia e per tornare indietro gli sforzi sarebbero disumani.

 

Tuttavia Eichengreen nella sua disamina critica pesantemente la politica europea del Bail-In che impedisce all’Italia di sistemare il dissesto della sue banche.

 

Riportiamo qui sotto il testo dell’editoriale dell’economista americano.

 

Ci sono ragioni valide per sostenere che la creazione dell’euro e la partecipazione dell’Italia siano stati due
errori storici. Il problema, come sappiamo ora, è che un’unione monetaria senza unione bancaria e unione politica non funziona. O almeno non funziona in modo soddisfacente per tutti.
Il primo decennio dell’euro ha visto un’imponente spostamento di capitali dall’Europa settentrionale, dove i tassi di interesse erano bassi, all’Europa meridionale, dov’erano più alti. Non c’era un’autorità di vigilanza unica, e più in generale non c’era nessuna unione bancaria che tenesse conto dell’impatto che avrebbe avuto la regolamentazione lasca delle banche francesi e tedesche su questi flussi, e come ne sarebbero stati influenzati i Paesi beneficiari.
I flussi che ne sono risultati hanno fatto scendere i tassi di interesse in tutta l’Europa meridionale. La
possibilità di finanziare i consumi a buon mercato ha creato un falso senso di prosperità, che ha incoraggiato i Paesi beneficiari a rinviare le riforme e ha consentito decisioni di investimento avventate, che ora gravano sulle istituzioni finanziarie che le hanno intraprese.
Il risultato è che l’Italia si trova oberata da un sistema bancario debole, una crescita anemica e vincoli sulla ricapitalizzazione delle banche ispirati dalla Germania. Sempre più italiani hanno la percezione che il loro Paese sia bloccato e che serva qualcosa di radicale per «sbloccarlo».
Ma riconoscere che adottare l’euro è stato un errore non significa che la linea d’azione migliore sia
abbandonarlo ora. La storia non ha la retromarcia. Uscire dall’euro non risolverebbe i problemi dell’Italia.
I vincoli alla crescita sono le restrizioni dei mercati dei prodotti e un sistema fiscale inefficiente, che deprime la produttività e scoraggia gli investimenti. I lettori italiani non hanno certo bisogno della lezioncina di un economista straniero per sapere che queste situazioni vanno cambiate.
L’interrogativo è se abbandonare l’euro accelererebbe queste riforme. Chi afferma di sì sostiene che
reintroducendo la lira e svalutandola le esportazioni e la crescita del Belpaese riceverebbero una spinta. Dal momento che la torta si ingrandirebbe, gli interessi costituiti sarebbero meno determinati a difendere la loro fetta immutabile e più inclini ad accettare riforme che accrescono la flessibilità.

Però non esistono dati che indichino in modo univoco che i Paesi fanno più riforme nei periodi in cui
l’economia tira. E anche il confronto tra l’esperienza italiana negli anni relativamente positivi prima del 2007 e gli anni più difficili successivi a quella data non induce a pensare che più prosperità renda possibile fare più riforme.

Anzi, induce a temere che la reintroduzione della lira sarebbe visto come una sorta di elisirmagico che rende inutili ulteriori riforme.
Inoltre, abbandonare l’euro avrebbe due costi seri. Il primo è che scatenerebbe il caos finanziario. Sapendo che la lira viene introdotta per lasciarla deprezzare rispetto all’euro, gli investitori fuggirebbero via. Il mercato azionario e il mercato obbligazionario crollerebbero. Importanti istituzioni finanziarie diventerebbero insolventi e bisognerebbe chiudere le banche a tempo indeterminato come è successo a Cipro, e dopo imporre restrizioni sui prelievi. Dovrebbero essere applicati controlli di capitale come quelli che l’Islanda ha appena eliminato (quasi dieci anni dopo averli introdotti). Non sembrano le condizioni ideali per un pronto ripristino della crescita.
I detrattori dell’euro ribatteranno che questi allarmi sono esagerati e sosterranno che la transizione può
essere gestita senza scossoni. Io non penso. Precedenti casi di unioni monetarie sciolte senza contraccolpi
sono avvenuti in circostanze molto diverse, che non hanno nessuna attinenza con la situazione odierna
dell’Italia.
Il secondo costo sarebbe quello di mettere a rischio l’accesso dell’Italia al mercato unico. L’abbandono
dell’euro sarebbe visto dai partner europei come un atto ostile, una revoca da parte italiana dei doveri
prescritti dai trattati. Il deprezzamento della lira sarebbe visto come un tentativo di risolvere i problemi degli esportatori italiani a spese dei loro concorrenti esteri, spingendo la Germania e altri a replicare con
restrizioni ai commerci. Il Regno Unito ha scoperto che abbandonare l’Unione Europea conservando
l’accesso al mercato unico è (come dirlo in modo educato?) complicato.

L’Italia scoprirebbe che abbandonare l’euro conservando pieno accesso al mercato unico è altrettanto complicato.
Tutto questo non significa che non ci siano delle falle da tappare nella struttura della zona euro. Il processo dovrebbe partire dal completamento dell’unione bancaria, rimasta a metà. Dovrebbe proseguire con una completa disconnessione delle banche dal mercato del debito pubblico, imponendo requisiti aggiuntivi di capitale se tengono in portafoglio titoli di Stato, invece di continuare con la finzione che quelle obbligazioni siano prive di rischio.
Il passo successivo sarebbe restituire la responsabilità della politica di bilancio alla sua sede naturale, i
Governi nazionali. Ci sono preferenze nazionali differenti in materia di politiche di bilancio, e i tentativi di supervisione di Bruxelles servono soltanto ad aggravare le tensioni. Le contese che ne sono nate hanno
peggiorato le prospettive di integrazione politica, creando conflitti e disarmonia. Non c’è decisione di politica nazionale più intima di quanto tassare e cosa spendere. La tesi, popolare in Germania, che il «rimpatrio» delle competenze in materia sia impraticabile perché la politica di bilancio ha forti ripercussioni oltreconfine non è supportata dai dati. Se il timore è che l’indisciplina di bilancio destabilizzi le banche costringendo la Bce a rispondere con finanza inflazionistica, allora la soluzione è semplicemente, di nuovo, disconnettere le banche dal mercato del debito pubblico.
La terza riforma essenziale è buttare a mare le regole europee sul bail-in, che impediscono al Governo italiano di usare le sue risorse di bilancio per ricapitalizzare le banche.
Se rimane nell’euro, l’Italia avrà la possibilità di sostenere queste riforme. Se ne resta fuori, avrà poche
speranze di influenzare le decisioni dei suoi vicini. Certo, in assenza di riforme l’euro rimarrà una pietra al collo del Paese. Ma in definitiva se l’economia italiana affonderà o resterà a galla non dipenderà dal peso di questa pietra, ma dalla capacità di intraprendere le riforme necessarie in Patria.

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Italia

Euro Sì o Euro No: la libertà dai vincoli europei è ormai una pericolosa bandiera elettorale

Il confronto sull’eventuale uscita dall’Euro non può essere trattato con partigianeria o emotività, come sempre più spesso avviene.

Sulle pagine del Sole 24Ore il professor Zingales ha invitato ad aprire un dibattito costruttivo sull’importantissimo tema, reso attuale dal fatto che il “NO” all’Euro è uno dei punti programmatici di alcuni dei movimenti politici più in ascesa.

Riportiamo qui i passaggi salienti dell’opinione in merito dell’economista Stefano Micossi, apparsa sul Sole24 Ore dello scorso 27 aprile.

Micossi cita anzitutto la pubblica dichiarazione di 25 premi Nobel apparsa su Le Monde poco prima delle elezioni presidenziali francesi i quali sottolineano che: «c’è una grande differenza tra scegliere di non aderire all’euro fin dal principio, e uscirne dopo averlo adottato».

Micossi quindi cita Krugman il quale sostiene che uscire per chi sta dentro produrrebbe conseguenze finanziarie devastanti (come confermato anche dal greco Varoufakis).

Ma i premi  Nobel, nella loro dichiarazione incentrata appunto sul caso francese, denunciano soprattutto che se la Francia uscisse dall’euro, vi sarebbe un reale rischio di dissoluzione non solo della moneta comune, ma dell’Unione europea, aprendo la strada allo smantellamento del mercato interno e all’emergere in sua vece di mercati nazionali separati da barriere protezionistiche. Su questo, Micossi propone tre interessanti valutazioni, che qui riportiamo:

 

La prima è che agli occhi di molti accademici americani – si veda per tutti il volume di Joseph E. Stiglitz The Euro: how a Common Currency Threatens the Future of Europe (Norton 2016) – il mercato unico, la moneta comune e le istituzioni create per sorreggere la realizzazione sono entità separate e indipendenti. Così, ai loro occhi il regime di cambio non influenza il mercato, dato che nulla impedisce agli operatori di coprirsi dai rischi di cambio a costi trascurabili. Analogamente, la decisione di cooperare in materia di controllo dei confini e di sicurezza comune appare ai loro occhi indipendente dalla scelta di condividere la moneta. Ma la storia contraddice questa visione, come ha magistralmente ricordato Sergio Fabbrini nei giorni scorsi su questo giornale. La ricerca costante della stabilizzazione del cambio, dopo la rottura dei cambi fissi di Bretton Woods, è stata sempre legata alla costruzione del mercato interno; e l’unione monetaria è stata la figlia della crisi del sistema dei cambi fissi, ma aggiustabili, dello Sme, dopo la scelta di liberalizzare i movimenti di capitali alla fine degli anni 80. Nel momento in cui si incorpora nei Trattati la moneta comune, a Maastricht, si istituisce anche l’Unione politica, articolata sui tre pilastri del mercato, della sicurezza interna e della politica comune estera e di difesa. Nel frattempo, le esigenze di preservare le quattro libertà di movimento all’interno del mercato unico (beni, servizi, capitali e persone), presenti fin dall’origine nei Trattati, conducono allo sviluppo di un sistema giuridico centrato sulla giurisprudenza della Corte europea di giustizia

Queste componenti sono tra loro intimamente legate; se ne cade una, cadono anche le altre come birilli.

Ad esempio, i negoziatori italiani che cercavano di riportare la lira nello Sme a metà degli anni 90 furono avvertiti che una nuova svalutazione della moneta italiana, dopo quella del 1992-93, avrebbe condotto all’instaurazione di barriere commerciali sulle esportazioni dei prodotti italiani verso il mercato interno. Dovettero anche inghiottire una certa rivalutazione del cambio come biglietto di ri-ammissione (circa un terzo della svalutazione originaria). Così come la moneta faceva parte dello scambio politico fondativo dell’Unione tra la Francia e la Germania nel momento dell’unificazione tedesca; e l’Unione politica era una precisa richiesta della Germania che rinunciava al marco (su questo i francesi ancora stentano a trovare una risposta).

La seconda osservazione riguarda le ragioni profonde della “preferenza rivelata” per i cambi fissi dei Paesi dell’Europa continentale, costantemente ribadita attraverso le più grandi tempeste finanziarie dagli anni 70 in poi. Questi Paesi sono “piccoli” nel contesto internazionale, fortemente tra loro integrati e collettivamente molto meno integrati con il resto del mondo, e hanno la caratteristica comune di ordinamenti economici e sociali piuttosto rigidi nei quali il cambiamento non viene semplicemente introdotto dalle forze di mercato, ma viene mediato politicamente tra le forze sociali con l’intervento attivo dei governi. È questo il modello dell’economia sociale di mercato, i cui equilibri sono incompatibili con regimi di cambio flessibile tra le monete dell’area. Non contrasta con questa analisi il fatto che alcuni Paesi del Nord Europa non abbiamo aderito all’euro: a tutti gli effetti, essi sono rimasti ancorati al cambio dell’euro e alle regole del mercato interno. Diverso era il caso del Regno Unito, che ha potuto restare nell’Unione come un free rider del mercato interno, con forti benefici per la sua piazza finanziaria, ma alla fine se n’è andato lo stesso, perché non riusciva ad accettarne le regole di libera circolazione garantite dalla Corte di Giustizia. Non è un caso, dunque, se nel momento delle scelte esistenziali, gli elettori dell’Europa continentale scartano le avventure e scelgono di continuare con l’euro e con l’Unione.

Infine, l’ultima osservazione: le politiche economiche necessarie ad assicurare la crescita sono esattamente le stesse sia con cambio fisso che con cambio flessibile. Senza disciplina di bilancio e disciplina nei costi industriali, senza progresso costante della produttività, non ci può essere crescita sostenuta. Trovo profondamente disonesto promettere all’opinione pubblica la libertà dai vincoli europei come bandiera elettorale, quando mi pare ovvio che una svalutazione del cambio (dopo l’uscita dall’euro) richiederebbe sacrifici di bilancio e sacrifici nel tenore di vita della popolazione molto più severi di quelli che il governo italiano fatica a fare accettare con i cambi fissi.

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Euro Sì, Euro No. La necessità di un dibattito serio e costruttivo.

Movimenti politici forti e attualmente in trend positivo come la Lega e il Movimento 5 Stelle sono apertamente anti euro, mentre altri partiti, quali Forza Italia o Fratelli d’Italia sono fortemente dubbiosi sull’utilità della moneta unica europea, pertanto l’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro non è irrealistica.

L’argomento tuttavia viene trattato da giornalisti e politici con una certa leggerezza oppure con prese di posizioni dettate più dall’emotività piuttosto che in modo razionale.

Invece l’argomento è così delicato e concreto che necessita di essere affrontato in modo logico e serio.

Il professor Zingales sulle pagine del Sole24 Ore ha recentemente posto le basi per un dibattito costruttivo sul fondamentale argomento, ponendo alcune regole, che qui citiamo (ricavate dall’articolo del 16 aprile 2017) e soprattutto dividendo il tema in tre argomenti di confronto:

“La prima è la correttezza formale. Non si accettano attacchi personali o insulti. La seconda è la correttezza sostanziale: ogni affermazione va giustificata con una referenza accademica (in nota) o con la precisazione che si tratta di un’opinione personale. La terza è dividere il dibattito per argomenti.

Nel decidere se la permanenza nell’euro è preferibile al ritorno a una moneta nazionale bisogna considerare tre aspetti.

1: se nel lungo periodo è preferibile per un Paese come l’Italia avere una moneta comune con il resto del (Nord) Europa o no.

2: quanto elevati (e duraturi) possano essere i vantaggi e gli svantaggi della svalutazione della nostra moneta nazionale che seguirebbe naturalmente dopo un’uscita dell’Italia dall’euro.

3: quanto elevati sarebbero i costi (economici e politici) di una nostra uscita unilaterale dall’euro.”

All’appello lanciato da Zingales hanno risposto immediatamente Franco De Benedetti e Ignazio Angeloni, i quali in realtà, prima di entrare nel dettaglio degli argomenti, hanno sostanzialmente negato che un dibattito serio non ci sia già stato, rimarcando piuttosto al difficoltà a giungere ad una conclusione condivisa.

Riportiamo quanto affermato da Franco Debenedetti (lettera del 18 aprile 2017) in risposta Zingales:

Dire, come come ha fatto Luigi Zingales nella sua rubrica «Alla luce del Sole» di domenica 16 aprile, che è mancato finora un “dibattito serio” sull’Italia e l’euro, mi pare un po’ esagerato. Anzi questo giornale, secondo la sua posizione e tradizione, vi ha seriamente contribuito: solo nelle ultime settimane ricordo Bini Smaghi, Codogno, Fabbrini, Galli, e sono certo di far torto a molti. Forse il dibattito non è stato organicamente articolato e pubblicamente esposto con l’evidenza adeguata all’ampiezza che hanno conquistato le posizioni euroscettiche. Ben venga quindi l’approfondimento che egli propone.

Tuttavia, prima che incominci il dibattito tra economisti, da non economista credo necessarie alcune riflessioni sul
dibattito stesso: metodologiche e politiche.

Prima: sull’ordine con cui Zingales ha scelto di articolare il dibattito. Cioè prima se la moneta unica conviene, poi quanto converrebbe non averla, infine quanto costerebbe abbandonarla. Sostengo che l’ordine debba essere invertito: infatti se l’uscita apparisse troppo costosa e troppo pericolosa, che senso avrebbe andare avanti? Ci sono buone ragioni per credere che così sia. Sentiamo cosa ne dice uno che queste cose le ha vissute, Yanis Varoufakis, sul blog di Rifondazione Comunista.

«Io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali.[Ma]c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne [perché questo]non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati. […] Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svaluarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo.Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.

Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, Paesi come la Germania, […] vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. […] Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in Paesi come la Germania) e un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei Paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali). […] Tutte le economie a est del Reno e a nord delle Alpi finirebbero in depressione e il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica […]. Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta». Fine della citazione.
Non si discute impunemente di vantaggi e svantaggi di un’uscita. Tutto ciò che rende credibile la ridenominazione, cioè che controlli sul capitale rendano impossibile portare gli “euro italiani” fuori dall’Italia oppure che questi siano forzosamente convertiti in una nuova lira, induce gli investitori a ritirare i propri depositi dalle banche italiane per depositarli in banche tedesche oppure per comperare Bund. Suscitare il timore del rischio rende il rischio autoavverantesi,
Seconda osservazione: le persone che dovranno contribuire al dibattito. Sull’euro c’è una “battle of ideas” (per riprendere titolo, e qualche frase, del recente libro di Markus Brunnermeier): battaglia tra l’idea francese, di uno stato centrale forte che interviene ex-post, e l’idea tedesca di un sistema di regole ex ante che evitino il 
moral hazard. Ma entrambe sono figlie dell’idea di stato nazione, quella che fatto grande l’Europa e con lei tutto l’Occidente. Diversa è la “battaglia” tra visioni continentale e anglosassone. C’è un bias ideologico: gli americani non hanno mai accettato che l’Europa potesse unirsi costituendo un’area economica più rilevante degli Usa. I vari Krugman, Sachs, Stiglitz, Feldstein, divergenti tra loro nelle analisi, sono uniti nelle critiche vivaci, a volte feroci, di ciò che l’Europa fa, o non fa. L’interesse geopolitico degli Usa a che l’Europa aiuti a stabilizzare la domanda aggregata a livello mondiale, e una diversa filosofia economica, aumentano la loro tendenza a far la lezione all’Europa.

Basti ricordare due momenti. Il 2012, anno di elezioni presidenziali, quando il timore che la crisi del debito europeo potesse dilagare e pregiudicare le sorti di Obama e portare a una vittoria dei repubblicani, i ripetuti interventi di Tim Geithner perché l’Europa «facesse qualcosa». E il 2015 quando gli Usa temettero che il contagio politico da Grecia a portogallo Spagna e Italia, rafforzasse il potere di Putin nel Sudest europeo: «un errore geopolitico», secondo John Lew.

Terza osservazione: le aspettative dell’iniziativa di Zingales. Tutti crediamo nel «valore di un dibattito intelligente e costruttivo»; paghiamo pure il rituale (e un po’ ipocrita) tributo allo scopo non di «convincere i lettori in una direzione o nell’altra, ma di informarli». Purché non si pensi che la soluzione al problema dell’Italia nell’euro sia un teorema da dimostrare o un modello da validare.

La questione è interamente politica, ed è nella politica che deve trovare la sua soluzione.

Un’interessante lettera è stata scritta anche da Ignazio Angeloni, membro del Cosiglio di vigilanza della Bce, titolata “L’euro non è certo l’origine dei nostri mali”, che riportiamo qui:

l’appello di Luigi Zingales ad avviare un dibattito “serio e costruttivo” sull’euro (Il Sole 24 Ore del 16 aprile) mi ha sorpreso. Premetto che conosco Zingales da diversi anni e che in passato ho apprezzato alcuni suoi contributi accademici nel campo della finanza; so anche che negli ultimi tempi egli ha espresso opinioni critiche sull’euro e sull’Unione europea. Non mi meravigliano quindi né la chiamata rivolta alla comunità accademica né l’implicito invito a sfatare, usando lo strumento dell’analisi, presunti luoghi comunisull’irreversibilità della moneta unica e sull’adesione dell’Italia.
Quello che sorprende è che l’appello sia lanciato senza avvertire l’ignaro lettore che l’argomento è stato
oggetto di interminabili discussioni per decenni, senza che si sia mai raggiunto alcun consenso sul piano
dell’analisi economica.
Cominciò all’inizio degli anni cinquanta Milton Friedman (Università di Chicago), al tempo in cui le parità monetarie erano fisse in tutto il mondo, con uno studio in cui sosteneva i vantaggi dei cambi flessibili. Pochi anni dopo arrivò Robert Mundell, anche lui fresco di studi a Chicago, con un altro studio in cui mostrava che a certe condizioni era preferibile un sistema di cambi fissi. Mundell è stato poi chiamato, forse a sproposito, il “padre dell’euro”. Da allora il dibattito è rimasto sostanzialmente fermo su quegli argomenti, né l’enormemassa di dati portati a supporto delle due tesi ha mai potuto dirimere la controversia.
La politica si è espressa in modo più netto. Dal dopoguerra a oggi (o meglio dal 1971, data che segna la fine del sistema mondiale dei cambi fissi) i Paesi europei hanno costantemente, anche se con difficoltà, cercato di stabilizzare i rapporti di cambio, nella convinzione che le oscillazioni delle parità monetarie fossero di ostacolo al mercato unico e al progetto più generale di integrazione e cooperazione nel continente. La creazione dell’euro, il compimento di quell’aspirazione, fu non solo approvata formalmente da tutti i Paesi, ma sostenuta a grande maggioranza dall’opinione pubblica. Quando venne introdotto, l’euro godeva del sostegno dell’84% degli italiani (sondaggio Eurobarometro); un dato fra i più alti dell’eurozona. Oggi la percentuale di approvazione in Italia è più bassa che negli altri Paesi (dove si sta riprendendo), ma rimane comunque superiore al 50%.
Pur rimanendo scettico sulla possibilità di risolvere la questione seguendo le regole proposte da Zingales,
condivido la passione per il civile confronto delle idee. Penso anche che in un momento di divisione e disorientamento del Paese sia dovere di coloro che a diverso titolo fanno di questi temi una professione ripensare le proprie convinzioni ed esporle in modo chiaro, cosicché esse possano essere comprese egiudicate. Per questa ragione ho spiegato le mie idee sull’euro e sulla permanenza dell’Italia in esso in uno scritto che viene pubblicato oggi in un volume di vari autori su temi analoghi. Per ragioni di spazio, mi limito qui a riassumere qualche considerazione.
L’Italia ha vissuto la sua “età dell’oro” (così l’ha chiamata Gianni Toniolo), con tassi di crescita annuali oltre il 5%, nel periodo postbellico in cui i cambi erano fissi. Dagli anni settanta, la lira si è progressivamente e drammaticamente svalutata ed è subentrato gradualmente il cosiddetto “declino”. Significa questo che fissando il cambio si ottengono automaticamente alti tassi di crescita? Evidentemente no. Giocavano allora, come oggi, altri fattori. Questo semplice fatto dovrebbe però far riflettere tutti coloro che contano sulla mera svalutazione della moneta per stimolare la crescita nel cosiddetto “lungo periodo”. Alcuni critici dell’euro portano poi ad esempio gli Stati Uniti, che sarebbero dotati, a differenza dell’eurozona, di istituzioni che consentono all’unione monetaria di funzionare – meccanismi di redistribuzione, un bilancio federale, una completa unione bancaria, e quant’altro. Quei critici dimenticano che gli Stati Uniti hanno introdotto quegli strumenti oltre un secolo dopo avere adottato il dollaro, e dopo una guerra civile, molte crisi finanziarie, e la Grande Depressione. Un esperto del processo di integrazione americana come Randall Henning ha scritto, ironicamente, che a confronto quello europeo è “molto educato”.
Negli ultimi anni, dopo che Mario Draghi ha annunciato che avrebbe usato tutti gli strumenti disponibili per difendere l’euro e dopo che la banca centrale ha dispiegato le sue manovre espansive, la crescita economica nell’eurozona (Italia esclusa) si è assestata intorno al 2%; in Italia, si colloca intorno all’1%. La Spagna, Paese che ha subito una grave crisi e ha dovuto ricorrere all’aiuto internazionale, cresce oggi a più del 3%.
L’appartenenza all’euro comporta insieme ai vantaggi anche regole e vincoli, ma questi semplici esempi dovrebbero far riflettere quelli che vedono la moneta unica come una gabbia in cui prospera solo la Germania, e che ritengono che la stagnazione italiana dipenda dall’euro e non da problemi intrinsechi del
nostro Paese. Su questi ultimi bisogna concentrarsi, senza cercare diversivi.
Auguro a Zingales e al Sole 24 Ore un proficuo dibattito su questi importanti temi. Non auguro invece a nessun lettore di questo giornale di ritrovarsi cittadino di un Paese che tentasse l’improvvida avventura di
staccarsi dall’euro e dall’Unione europea. Nessuno di questi due è perfetto: dobbiamo lavorare insieme dall’interno per migliorarli.”

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